Gaetano Miccichè

Rassegna stampa 2011

Una vita in sol maggiore

  - Il Foglio

Prima scattava sempre la segreteria. Da qualche tempo i figli gli hanno imposto la vicinanza di una donna di servizio e di un accompagnatore, che però non l'accompagna. Risponde al telefono, questo sì, e invariabilmente, in un italiano stentato, comunica che no, il commendatore non c'è. A 90 anni da poco compiuti, Gerlando Miccichè, gentiluomo palermitano, amico delle arti, e della musica in particolare, non riesce a stare in casa. Se non, di quando in quando, per ricevere qualche ospite a colazione o di notte, per dormire un po'. Ora mangia fuori da o con amici, ora è al cinema, in libreria o, soprattutto, ad ascoltare musica in giro per la città. Teatro Massimo, Orchestra sinfonica siciliana, Amici della musica, Associazione Antonio II Verso, opere e concerti, repertorio barocco, classico, romantico, moderno, matinée o serale, non un appuntamento saltato. Mai lo si è visto stanco o sudato; anzi, le partenze audaci verso Salisburgo o altre lontane mete artistico musicali (dategli una bella mostra e una bell'opera, la sua letizia sarà perfetta) gli provocano una strana frenesia, un'allegria fanciullesca. Ma ecco che si siede a  teatro: come d'incanto ogni turbamento svanisce, il corpo si fissa in una posa composta, l'attenzione non deflette un istante. Alla fine, in caso d'impressione negativa, la riservatezza (virtù in lui spiccatissima, in questo come in ogni altro campo) gli suggerirà un silenzio eloquente. Il pieno gradimento si manifesterà, invece, con un sorriso amabile, senza esagerare. L'esperienza estetica per Miccichè è un fatto esclusivamente interiore, un bene prezioso da centellinare e preservare: non lo infiamma o esalta, lo nutre e rasserena. Se dovesse sciogliere un canto di lode alle amatissime Muse sono certo che rifuggirebbe il maestoso do maggiore, l'eroico mi bemolle, per ripiegare sulla dolcezza soave e lenitrice del sol maggiore. Gli occhi, la voce si animano nello spazio privilegiato del ricordo: "Ho sempre letto molto, e ascoltato tanta musica. Mia madre cantava sempre arie d'opera, e così zia Silvia, che abitava con noi ed era una lettrice accanita. In più, mio nonno materno possedeva e dirigeva a Palermo un liceo privato. La prima opera l'ho vista a dodici anni, mi portò a teatro il notaio Cavarretta, fratello del docente di Diritto costituzionale col quale mi sarei laureato, facendogli anche da assistente. A dire il vero, sì, mi sarebbe piaciuto restare all'università, ho un grande amore per l'insegnamento. Anche nelle piccole cose: quando per strada mi fermano dei turisti mi piace molto dare loro indicazioni". Per adesso, nessuno dei suoi discendenti ha sposato la causa delle sue passioni predominanti: il cinema ("Mi fidavo ciecamente di Mariarosa Mancuso, finché non mi ha indotto ad andare a vedere un film pieno zeppo di “ahò, ahò” romaneschi") e la musica classica. Staremo a vedere coi pronipoti, quelli nati e quelli a venire: a giorni convola a nozze il nipote che porta il suo nome: "Si sposa a Parigi, la città che, insieme a Palermo e a Roma, conosco meglio al mondo. Rammento che una volta, era il 1975 e il lunedì dovevo essere a Londra per una riunione della Bank of South (un istituto di credito per il mercato estero creato da un pool di banche italiane: un'iniziativa fallimentare, che mi vedeva contrarissimo; sarà per questo che mandavano sempre me agli incontri), mi fermai apposta a Parigi per assistere alle "Nozze di Figaro" con Bacquier e la regia di Strehler, e a una "Bohème" con la Freni e Fava rotti nel pieno del loro fulgore. Sempre nei miei viaggi, per lavoro o per diporto, facevo in modo di ritagliarmi uno spazio per andare ai concerti o all'opera".
"Durante i miei soggiorni romani, d'altra parte, non ho mai perso i concerti domenicali di Santa Cecilia all'Adriano o all'Argentina. Grazie al portiere dell'Hotel Ambasciatori, l'indimenticato Fulvio, riuscii a trovare un posto per un'esibizione di Furtwangler coi Berliner Philharmoniker. Ero in prima fila e a un certo punto mi sentii piovere addosso il sudore dalla sua nuca. A Bayreuth sono stato una volta sola, nel 2000 per l'Anello del Nibelungo'. Il Festival di Salisburgo ho cominciato a frequentarlo nel '59, e i ricordi più belli sono legati alla scoperta di 'Arianna a Nasso' di Richard Strauss, per la cui produzione teatrale nutro da allora una grande passione, e ad alcuni concerti di Karajan: la 'Messa in si minore' di Bach conclusa nel più perfetto silenzio, senza applausi, e il programma formato da 'Sinfonia delle Alpi' di Strauss e 'Apollo musagete' di Stravinskij. Negli ultimi anni veniva anche mia moglie, che all'inizio non era granché coinvolta dalla musica, poi pian piano si appassionò. Nella nostra vecchia casa di viale Campania 46 per una ventina d'anni abbiamo organizzato delle riunioni musicali pomeridiane, a base di ascolti discografici. In una, dedicata al 'Cavaliere della rosa' di Strauss, donammo a ciascuna signora presente una rosa d'argento. L'ultima si tenne l’11 gennaio 1991 e fu interamente riservata a musiche di Mozart, a duecento anni dalla sua morte." Gerlando: il nome denuncia da subito le origini agrigentine (san Gerlando, vescovo, XI sec, è il patrono della città siciliana): per l'esattezza, le sue radici affondano a Favara, patria del mirabile pecoro curcato, dolce pasquale preparato con la pasta di mandorle e a forma, per l'appunto, di ovino accovacciato. Primo di cinque fratelli, è nato e cresciuto a Palermo in mezzo alle donne: la madre adorata, le due zie materne che vivevano in casa, la venerata principessa di Paternò, nata Lanza di Tracia, ai nipoti della quale l'adolescente Gerlando impartiva ripetizioni a raffica di ogni materia: "Mio padre aveva finalmente vinto il concorso di notaio e la sua prima destinazione era stato un paese dell'Appennino modenese. Mentre si apprestava a tornare in Sicilia, e già ci figuravamo un destino di agiatezza e serenità, ecco che all'improvviso si ammala e muore. A quindici anni mi ritrovai principale e pressoché unico sostegno della famiglia. Presi la licenza liceale e a sedici anni mi iscrissi all'università, facoltà di Giurisprudenza. Naturalmente chiesi l'esenzione dalle tasse, ma il presidente della commissione, Paolo Fortunati, un bolognese docente di Statistica, me la negò adducendo come motivo la mia non appartenenza al Guf, Gioventù universitaria fascista: l'iscrizione costava dieci lire, le tasse ammontavano a trecento, presi la tessera. Dopo la guerra il professor Fortunati fu eletto deputato per tre legislature nelle file del Pei... Sono sempre stato un lettore fedele del Mondo, e rammento una frase scritta da un grande meridionalista precocemente scomparso, Vittorio De Caprariis: 'La cultura m'impedisce d'essere comunista, la civiltà di essere democristiano, l'intelligenza di essere fascista'. Ho tenuto fede a questo motto". Una fede duratura, che non mostra crepe. E che suscita intorno a sé il rispetto e l'affetto dei familiari e dei moltissimi amici. Amiche, specialmente. D'ogni foggia e d'ogni età, tutte parimenti devote e affettuose: c'è quella dei pomeriggi al cinema, quella con cui va ai concerti, quella delle cene al circolo, quella delle sere all'opera, quella dei viaggi. Tra tutte spiccano le due vittime, fedelissime e premurosissime, delle sue furibonde funeste e fugaci arrabbiature. Miccichè l’ainè è uomo, oltre che intelligente colto sottile, buono generoso accogliente, ma guai a contraddirlo (troppo), guai ad azzardare citazioni imprecise o peggio ancora errate, guai a lanciarsi in dissertazioni politiche: il Gerlando furioso è sempre in agguato. "Ero il più a sinistra dei miei amici, improvvisamente mi sono trovato il più a destra, senza aver mutato idee". Quando? "Inizio anni Novanta". A proposito di approssimazioni: non è che nel parlare delle "gerlandine" sono precipitato nello stereotipo, insopportabile, del fimminaro impenitente? Di questa maschera vernacolare, col suo corollario stucchevole di ammicchi e strizzatine d'occhio, Miccichè, sia chiaro a tutti, è la pura e semplice antitesi. Benché sensibile e sollecito verso l'eterno femminino, non lo sentirete mai parlare di donne, vantarsi del proprio fascino irresistibile, di mirabolanti quanto improbabili conquiste. Il repertorio tipico dei Don Giovanni in Sicilia gli è concettualmente estraneo. A distinguerlo dal siciliano tipo (non solo quello d'antan) contribuisce in maniera determinante il vezzo di descriversi con un'immagine icastica, fin rude: "Sono brutto e malo cavato". Un'arguzia certo, ma per nulla benevola o compiaciuta. Invariabilmente benevole e dolci e pazienti appaiono invece, nel ricordo, le due donne intorno a cui è ruotata la sua vita, la mamma e Mariulla, la sposa diletta, la madre dei suoi quattro figli, tutti maschi e tutti, curiosamente, accomunati dalla stessa iniziale nel nome, ovviamente una G: Gaetano, Gianfranco, Guglielmo e Gabriele: "Solo quello dell'ultimogenito è frutto di una scelta dettata da ragioni di uniformità, gli altri tre si chiamano come i nonni o altri antenati". In qualche modo, i rampolli Miccichè hanno seguito le orme paterne, ciascuno però trascegliendo un solo aspetto della sua multicromatica tastiera: due, Gaetano e Guglielmo, hanno fatto carriera nel circuito bancario, Gianfranco è sceso in politica, mentre Gabriele si occupa di editoria; senza dimenticare l'impegno come dirigente calcistico che Guglielmo conduce parallelamente all'attività professionale. "Sono un patito di calcio e di sport in genere, con un'attrazione speciale per l'atletica leggera e il ciclismo. I bambini tifano sempre per i vincitori: io infatti tifo Juventus perché tra il 1927 e il '31 vinse cinque scudetti di seguito; il maggiore dei miei figli, invece, è un milanista sfegatato da quando, nell'estate del 1960, trascorremmo le vacanze a Grottaferrata, vicino Roma, nello stesso albergo dove risiedeva la Nazionale che quell'anno vinse le Olimpiadi e che era in gran parte composta da giocatori del Milan. Nell'immediato Dopoguerra, a Roma, conobbi Angelo Moratti. Ci trovavamo in un ristorante in piazza Santi Apostoli, lo stesso frequentato anche da Trilussa. Moratti, si capisce, teneva per l'Inter, e tra noi scommettevamo su chi avrebbe vinto il campionato, le mie diecimila lire contro le sue cinquantamila." E le altre occupazioni-predilezioni? Miccichè padre e la lettura: entrare a casa sua, in piazza Castelnuovo a Palermo, significa inoltrarsi in una babele libraria discografica e filmica in cui il sapere - narrativa, poesia, critica, filosofia, storia, arti varie, persino scienze - si affastella accumula accatasta, creando pile e montagnole in apparenza vacillanti, e invece ferme, stabili come rocce. Chi trova qualcosa è bravo o fortunato. Salvo, s'intende, Gerlando, che in questa selva intricatissima si raccapezza abbastanza; le indicazioni fornite agli "esploratori" di volta in volta incaricati di cercargli quel dato volume, ed o dvd sono quasi sempre esatte, e le cose, normalmente, ritrovano la via della luce. Non tutte, e non sempre: la sua tesi di laurea in Relazioni internazionali, dedicata alla "Questione dell'Alabama" (una nave al centro di un aspro scontro diplomatico tra Stati Uniti e Gran Bretagna all'inizio degli anni Settanta dell'Ottocento), non è più saltata fuori. Peccato. Miccichè padre e la banca: nel '47 entra al Banco di Sicilia, a Roma. Oltre che nella capitale e a Palermo, lavora nella sede di Firenze e, per pochi mesi, in quella di Tripoli. "Quando il Banco contava, e io contavo al Banco", è una delle sue frasi ricorrenti, insieme a "un milione non lo si negava a nessuno, come a Giolitti la croce di cavaliere". Conclude il suo cursus col grado di vicedirettore generale. Ogni volta che dalla Banca d'Italia giungeva un portavoce con la nomina del nuovo direttore generale, invariabilmente, dopo l'annuncio del prescelto (che non coincideva mai con la sua persona: la politica non è mai estranea a queste faccende), si sentiva ripetere: "Le porto i saluti del governatore, che nutre per lei la massima stima", E lui, di rimando: "La ringrazio, ma non ho il piacere di conoscerlo". Si trattava di Carlo Azeglio Ciampi. Le antipatie di Gerlando sono tenaci. Miccichè padre e la politica: tra la fine della guerra e il '47 è al fianco di Vittorio Emanuele Orlando, ha modo di conoscere Benedetto Croce ("Venne in ufficio, uscendo si accorse di aver perso un bottone, lo cercammo per un bel po' ansiosamente, ma non si trovò"), vive in presa diretta l'entusiasmo della Costituente, la nascita dello stato democratico e repubblicano, guadagna dodicimila lire al mese, di cui seimila finiscono a Palermo, quattromila vanno nella camera, e duemila servono per le sigarette e il cibo ("tanti 'supplì al telefono' consumati in piedi in un bar dietro piazza Colonna. Spesso però ero invitato, per fortuna..."). Questo ventenne brillantissimo assomiglia al Filippo Rubò di Borgese, calato "a Roma con una laurea in Legge (in realtà Gerlando ne ha anche una seconda, in Scienze politiche), un baule di legno e alcune lettere di presentazione a deputati e uomini d'affari". Per fortuna nei riguardi di Miccichè il destino si è rivelato molto più benevolo. Dal '59 al '61 torna in riva al Tevere come braccio destro del sottosegretario ai Lavori pubblici Antonino Pecoraro, fanfaniano di ferro, nonché cognato di Franco Restivo, numero uno della Dc in Sicilia, di cui Gerlando è amico fin dall'infanzia. "Mi ripeteva continuamente: 'Sei il mio unico collaboratore non democristiano'. Furono anni beati, sul piano professionale certo (avevo carta bianca), ma anche perché quella era la Roma della 'dolce vita', di via Veneto. Ricordo che Gassman stava sempre seduto a un tavolo, mano manuzza con Anna Maria Ferrerò". L'ironia di Gerlando è implacabile. Come dimostra questo episodio conclusivo, che oltretutto riguarda da vicino il giornale che state leggendo. Accadde, dunque, che un lunedì di un non troppo remoto passato Miccichè tempestasse di telefonate il centralino del Foglio alla ricerca, spasmodica quanto vana, di quell'Andrea al cui nome s'accoppia il genitivo sassone, testimonianza indubbia dell'ambizione a fornire "versioni" personali e soggettive dei fatti. L'intenzione della chiamata era quella di comunicare una papera dell'aborrito - da entrambi, Andrea e Gerlando - Eugenio Scalfari. Costui, che da qualche tempo indulge a smanie citazionistiche, volle inserire in uno dei suoi fondi domenicali un detto greco adottato anche nell'antica Roma: "Quos deus vult perdere, dementat", vale a dire "il nume toglie il senno a coloro che vuole rovinare"; solo che in luogo del corretto accusativo "quem" o "quos", la sua penna pare abbia vergato sul foglio un madornale nominativo, "qui". Topica fatale, abbrividente. Sfuggita a tutti, Andrea compreso. Chi sa più il latino? Nessuno. Nessuno, tranne Gerlando Miccichè. Man perché tanta acredine verso Scalfari? Non viene forse anche lui dal Mondo di Pannunzio? "Già, e infatti io lo ammiravo fanaticamente. Senonché, una volta lo sentii apostrofare una guardia che non lo faceva passare da un varco riservato alle autorità con le fatidiche parole: 'Lei non sa chi sono io'".

 


< torna all'elenco